«Da quel momento in poi, i nostri nomi ebbero un’importanza solo secondaria. Contava molto di più il nostro numero di trasporto. A me fu assegnato il numero IV/12-778. All’arrivo, fummo condotti nella cosiddetta chiusa, una caserma in cui rimanemmo per alcune ore per i controlli personali e del contenuto dei nostri bagagli. Ciò fu eseguito da gendarmi cechi: se gli piaceva qualcosa del contenuto dei nostri sacchi, se ne appropriavano senza che noi potessimo nulla eccepire. Poi cominciò la marcia per le strade di Theresienstadt» (Federica Spitzer, “Anni perduti”, 44)
Appena giunti nel campo di Theresienstadt i detenuti ricevevano un titolo di identificazione personale che sostituiva qualsiasi documento posseduto sino ad allora (Archivio storico di Lugano, Fondo Federica Spitzer).
Documenti di identità di Federica Spitzer rilasciati dall’amministrazione del ghetto di Theresienstadt. Sostituirono ogni passaporto o carta d’identità posseduti in precedenza (Archivio storico di Lugano, Fondo Federica Spitzer).
«Come infermiera, ricevetti poi un lasciapassare; altri non potevano per nessun motivo uscire in strada. Ma, in caso di controllo, anch’io dovevo poter dimostrare che stavo percorrendo la via più breve dal lavoro alla mia ubicazione. Sarei stata punita durissimamente se fossi stata scoperta sulla strada della panetteria e per di più con un pezzo di pane nascosto sotto il cappotto» (Federica Spitzer, “Anni perduti”, 60)
Lasciapassare che permetteva a Federica Spitzer di circolare nel ghetto anche oltre le ore 20, se richiesto dalle sue mansioni di Stationenschwester, infermiera del campo (Archivio storico di Lugano, Fondo Federica Spitzer).