La notte del 16 ottobre 1943, con la retata nazista nel ghetto ebraico, segnò per Sommaruga un punto di non ritorno. Sentì per la prima volta tutta la responsabilità della sua missione diplomatica e capì che, restando a Roma, avrebbe potuto aiutare concretamente molte persone in pericolo di vita. Senza abbandonare il suo proverbiale ottimismo, ma anche senza censurare nulla, continuò a scrivere alla moglie in toni a volte cupi e a volte leggeri, affinché non si preoccupasse troppo per lui. In realtà, durante il lungo inverno 1943-44, nei suoi continui andirivieni per la città occupata rischiò più volte la vita. Traeva la sua forza e il suo coraggio da un sincero senso del dovere e dal pensiero di chi era in salvo a Lugano, ma anche dalla fede e dagli insegnamenti che aveva appreso in famiglia e che condivideva appieno con la moglie Anna Maria.
«Sabato lavoro intenso, la solita immensa processione di gente. E quanta ne viene e la più impensata. E tutti vogliono un lume da me, vogliono un consiglio. Quando arrivo a sera stanco morto sento però una gran soddisfazione di aver fatto del bene a tanti. È così bello fare del bene al prossimo e questo è quel cammino che tu mi hai mostrato e che seguendolo mi pare di percorrere con te» (27 settembre 1943)
«Purtroppo le cose della Legazione precipitano: si chiede nuovamente a noi una risposta sulla partenza, aspettiamo domani il corriere di Berna che forse porterà istruzioni. Se tu sapessi quale sacrificio rappresenta per me il decidere di rimanere (se riuscirò) mentre potrei venire accanto a te ed a voi e non restare qui in questa caotica situazione. Forse esagero, ma il mio principio è di fare quello che la mia coscienza definisce come mio dovere, anche se duro e durissimo» (19 ottobre 1943)